Hai mai sentito parlare di “errore fondamentale di attribuzione”? Ecco cos’è e come correggerlo grazie a un metodo di valutazione efficace e che non mortifichi l’alunno.
In psicologia sociale l’errore fondamentale di attribuzione è la tendenza sistematica ad attribuire internamente la causa di un comportamento, sottostimando l’influenza che l’ambiente o il contesto possono avere nel determinare tale comportamento.
Gli errori fondamentali di attribuzione sono ormai socialmente e culturalmente noti, soprattutto nella loro declinazione in bias cognitivi, ma pochi li tengono davvero in considerazione nei contesti dove maggiormente impattano.
Ad esempio, se Mario vede Silvia cadere dalla bici, pensa non sia capace a guidarla (attribuzione interna), mentre se poi lui prova a guidarla e non riesce, ritiene che la causa sia il terreno dissestato (attribuzione esterna). Di solito funziona proprio così il cervello umano: per mantenere la propria autostima, vengono attribuite a se stessi le cause degli eventi positivi, mentre all’esterno (gli altri, l’ambiente) quelli negativi.
Uno dei luoghi dove capita spesso di vivere delle modalità di giudizio distorte in maniera sistematica è proprio la scuola, sia per gli alunni che per gli insegnanti. I giudizi che si emettono consentono di descrivere le azioni o i comportamenti.
In genere, a scuola, le attribuzioni degli alunni relative al proprio comportamento, in caso di risultati positivi, sono di tipo interno (“sono bravo, mi impegno”), mentre in caso di fallimento tendono ad essere di tipo esterno (“il compito era difficile, ero assente, l’insegnante non sa spiegare”, ecc.). Invece, l’attribuzione degli insegnanti verso gli alunni, in caso di fallimento o di un risultato scarso, va nella direzione opposta: è di tipo interna (“non ha studiato, non si impegna, non gli interessa”, ecc.).
Le differenze esistenti tra le attribuzioni “dell’attore” (proprio comportamento) e quelle “dell’osservatore” (comportamento degli altri) costituiscono il cosiddetto errore fondamentale di attribuzione. Nel presente articolo la questione è semplificata, ma risulta fondamentale sapere come rompere questo “schema”, per riuscire a promuovere l’autostima nei propri alunni e aiutarli a raggiungere buoni risultati.
Quando ciascuno si concentra su quello che l’altro non fa
Di base, la cultura scolastica insegna che per valutare un alunno, si evidenziano le sue mancanze, quello che non ha imparato, ciò che non sa fare. Siamo proprio sicuri però che sia la giusta modalità per stimolarlo? Per motivarlo a colmare quelle lacune e recuperare le proprie mancanze?
Scopo ufficiale della valutazione è, infatti, accompagnare i processi di apprendimento ed essere uno stimolo al miglioramento continuo, alla finalizzazione del percorso didattico. Allora, come aiutarla al meglio nel suo scopo?
E se considerassimo per un momento la valutazione come sinonimo di relazione? Se il reale modo in cui essa viene precipita e vissuta equivalesse più alla descrizione del maestro Davide Tamagnini? Cioè, come recita nel suo libro Si può fare. La scuola come ce la insegnano i bambini: “Il modo di costruire la relazione nella scuola tra le persone, tra le persone e le cose, tra le cose e la conoscenza, tra la conoscenza e il significato”.
Per considerare la valutazione in questa prospettiva, possiamo vederla nella sua complessità, in quanto non è solo un voto, un giudizio finale, ma è il modo con cui si guarda ai propri studenti, quotidianamente. Potrebbe allora essere che il rifiuto di certi giovani per la scuola, nasca proprio da una ferita relazionale? Dall’essersi sentiti rifiutati?
Troppo “irrequieti”, troppo “svogliati”, troppo “maleducati” e una serie di insufficienze in pagella pietrificano e sugellano il presente e il futuro di certi alunni. Esiste, ovviamente, la possibilità di insegnare a quei ragazzi “pietrificati”, la capacità di aprire lo sguardo al mondo, per non chiuderlo dentro un giudizio che fissa l’esistere: esistenze e personalità che, invece, sono in continuo mutamento, proprio nel bel mezzo dell’età dei grandi cambiamenti, rischiano di costruirsi rigide identità fallimentari! Per generare la possibilità che loro credano in se stessi, perché credano che ne valga la pena studiare, ci sono alcuni studi sociali che potrebbero essere d’aiuto.
La valutazione
Oggi si parla sempre più di valutazione, a partire da una serie di documenti ufficiali, dall’Unione Europea al nostro Ministero, sostengono il suo ripensamento. Però, quando la richiesta di un cambiamento di paradigma diventa norma imposta dall’alto, legge a cui doversi adattare, diventa difficile quel passaggio interiore necessario perché avvenga una reale trasformazione, dal momento che ogni autentico mutamento in campo educativo non può che partire da se stessi.
La trasformazione suggerita è quella di passare dal considerare quello che l’altro non fa o non sa, al valorizzare quello che sa e fa, per sostenerlo nel migliorare dove ci sono punti di debolezza. Cogliere nell’altro la sua ricchezza e, partendo da questi elementi di forza, andare a lavorare sui propri margini di miglioramento, diventa l’approccio di base con cui è possibile incarnare nella realtà educativa la parola valutazione.
Come può una qualunque persona migliorarsi se non vede in sé le risorse necessarie per procedere?
Nel caso dei minori, l’insegnante che incontra può fare la differenza e aiutarlo a individuare il proprio trampolino di lancio. Possibilità di crescere, di migliorare, di apprendere dall’errore, di riconoscere e valorizzare la propria unicità, di rendere reale l’inclusività.
Studi sull’intelligenza emotiva ci insegnano che, affinché siano possibili il tipo di crescita e di apprendimento appena descritti, è necessario creare una cultura di classe condivisa, in cui ognuno definisce gli obiettivi che vuole perseguire, dove, quando vengono violati, si parla e ci si confronta, dove l’errore diventa occasione di crescita, dove c’è una linea educativa coerente.
Con questa premessa si genera un clima di fiducia, in cui è possibile sentirsi parte del contesto, dove ci si può aspettare che ciascuno si assuma la propria responsabilità, studiando e lavorando con impegno e avendo come obiettivo la crescita comune. Utopia? Forse, ma se ci sta a cuore l’insegnamento, se ci sta a cuore ogni alunno, tanto vale provarci. Perché in realtà quando un alunno perde uno o più anni scolastici, quando esce dal sistema e abbandona, ha perso lui, sì, ma ha perso anche la scuola e pure la società, insomma, abbiamo perso tutti!
Certamente, bisogna chiarirsi prima qual è il fine del proprio insegnamento. Se è quello di portare tutti i propri alunni a imparare, di offrire proprio a ciascuno la sua occasione di apprendimento e di crescita, allora è bene non cadere nella costruzione dell’errore fondamentale di attribuzione.
La percezione di autoefficacia: cos’è e come lavorarci
Il grado di autostima è influenzato molto dalla percezione interna ed esterna di poter e di saper raggiungere quel determinato obiettivo: quindi, siamo tutti responsabili nella sua costruzione.
È noto che il bambino o il ragazzo che viene trascurato, non amato, giudicato incapace o indegno, immeritevole, o su cui vengono proiettate aspettative troppo elevate, spesso riporta risultati scolastici insoddisfacenti e gli scarsi esisti alimentano il meccanismo che incide considerevolmente sulla sua formazione psichica.
L’autoefficacia, così come è stata descritta dallo studioso Albert Bandura, è la “consapevolezza di essere capace di dominare specifiche attività, situazioni o aspetti del proprio funzionamento psicologico o sociale”: è la percezione di sé come individuo capace di fare. Perché tale capacità venga sviluppata, è necessario fornirsi di alcuni strumenti nel lavoro educativo, sia in ambito familiare che scolastico.
Eccone alcuni:
- utilizzare una comunicazione positiva e propositiva che valorizzi l’individuo;
- osservare i comportamenti degli alunni cercando di comprenderne la causa;
- favorire momenti di apprendimento cooperativo;
- definire insieme degli obiettivi condivisi verso cui tendere, sia con ogni singolo alunno che come gruppo classe.
Per ognuno dei punti sopra espressi si potrebbe scrivere un intero articolo, però riporto qui brevemente alcuni esempi semplici di applicazione e quadri metodologici di riferimento.
Alcuni esempi: la comunicazione non violenta
Rispetto alla comunicazione positiva, un quadro di riferimento metodologico facilmente rintracciabile e molto diffuso è quello della comunicazione non violenta, ma non è l’unico. In sintesi estrema, con un esempio, la comunicazione non violenta sposta il proprio centro su di sé, anziché sull’altro, quindi anziché dire:
“Tu! Disturbi sempre tutti con il tuo modo di fare. Ora Basta!”
Comunicare partendo da sé e dal proprio stato emotivo:
“Quando interrompi la lezione e disturbi i compagni, sono costretta a riprenderti, e mi arrabbio / mi infastidisco / mi dispiace (ecc.) perché devo interrompere la lezione.” “Ti chiedo di partecipare alzando la mano.”
Il secondo tipo di comunicazione non è mortificante né giudicante, è correttiva, ma allo stesso tempo non svalorizza l’alunno, senza rinunciare a correggere il comportamento scorretto.
Per osservare i comportamenti degli alunni, di base, è necessario un cambio di atteggiamento verso la comprensione delle cause profonde e reali che portano a un determinato risultato, piuttosto che incappare nell’errore fondamentale di attribuzione.
Quindi proporsi con un atteggiamento di supporto, come ad esempio: “Se ci sono delle difficoltà, me ne puoi parlare e vediamo come e se ti posso aiutare”, oppure “Riconosco che hai questi talenti e risorse, cosa succederebbe se provassi ad applicarli a questo compito? Proviamo a scoprirlo insieme?”.
Alcuni esempi: la documentazione dei processi di apprendimento
Un quadro metodologico, che aiuta l’insegnante a spostare l’attenzione in modo da evitare quanto più possibile gli errori di attribuzione, è quello della documentazione dei processi di apprendimento; si tratta della raccolta e della registrazione ordinata dei dati osservati nella realtà scolastica, per ricavare informazioni su processi didattici ed educativi messi in atto e sui risultati conseguiti dagli alunni. La documentazione è un mezzo per conoscere e valorizzare le esperienze e i percorsi didattici e costruire un patrimonio comune di buone pratiche.
Attraverso l’attivazione di risorse didattiche di tipo collaborativo è possibile favorire il sostegno reciproco nella classe. Attività di ricerca di gruppo su un tema, sviluppo condiviso di progetti o artefatti, circle time, role playing, educazione tra pari e così via: sono tutti strumenti che promuovono un senso di appartenenza e sono occasioni in cui si approfondiscono le relazioni con i compagni, dove è possibile che le risorse di ciascuno vengano valorizzate, grazie alla guida e al supporto dell’insegnante.
Definire degli obiettivi condivisi promuove un senso di responsabilità sia del gruppo classe, che individuale.
Gli obiettivi possono essere sia di carattere sociale, come le competenze trasversali, che didattico. Ad esempio, accettarsi, accogliere i propri compagni, rispettare il ruolo dell’insegnante, migliorare i propri risultati scolastici, eccetera. Importante è che siano finalità condivise e che insieme ci si accordi anche su come rispettarle e mantenerle nel tempo.
Valorizzare le risorse umane: il prestito professionale e la bocciatura con credito
In sostanza, si tratta di trovare strumenti e risorse adatti al proprio contesto e alle proprie capacità e orientamenti personali. Sopra ne ho suggerite alcune, ma è possibile reperirne molte altre.
Vie possibili per valorizzare le risorse umane nella scuola, per passare da “quello che non fa e non sa” a “quello che sa e che può fare”, sono anche suggerite dal Movimento delle Avanguardie Educative promosso da Indire.
Il prestito professionale ha lo scopo di valorizzare la professionalità e le competenze degli insegnanti, mentre la bocciatura con credito sostiene le possibilità e le capacità degli alunni.
Nel primo caso, si tratta di alcune possibilità di scambio professionale tra la scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado, superando così la tradizionale assegnazione dei docenti ai rispettivi ordini di scuola. Oppure, il prestito può essere applicato alle discipline, dove viene affidato, ad esempio, al docente di filosofia il compito di estendere la pratica filosofica nell’ambito di istituti tecnici e professionali, che non prevedono tradizionalmente l’insegnamento di questa disciplina.
Nel secondo caso, quello della bocciatura con credito, si tratta di rispondere a quegli studenti in cui, a un certo punto dell’anno, matura la certezza, fondata o meno, di non farcela a conquistare l’ammissione alla classe successiva e per questo motivo tendono ad abbandonare. Come motivarli? Come far sì che il lavoro dell’anno non venga sprecato? Come contenere il senso di frustrazione e d’inutilità che, immancabilmente, un giudizio di non ammissione genera?
La proposta bocciato con credito prevede che tutte le discipline per le quali il giovane abbia comunque conseguito un giudizio di sufficienza vengano registrate come “credito formativo” nel suo curriculum.
Per scoprire di più su queste due applicazioni delle Avanguardie Educative, vi invitiamo ad ascoltare i casi di alcuni istituti scolastici raccontati nella serie podcast Idee per Insegnare:
Che cosa ne pensi, avevi mai sentito parlare di questi metodi di valutazione? Vi piace ascoltare podcast per scoprire nuovi metodi di insegnamento?